Europa in Interrail: diario di viaggio
Viaggiare, sempre e comunque
Sogno di girare l'Europa in Interrail da quando avevo sedici anni. Ne ho compiuti diciotto e immaginavo che sarebbe stato il viaggio perfetto dopo il diploma. Ne sono trascorsi altri quattordici prima che decidessi finalmente di comprare il famigerato biglietto, pochi mesi prima che scoppiasse il primo grande evento storico del XXI secolo dopo il crollo delle Torri Gemelle, ossia la pandemia di Covid-19. Decisamente il momento meno adatto per affrontare un viaggio su rotaie in giro per le città europee, nonché qualsiasi altro tipo di viaggio, a dirla tutta. Avevo pensato di rinunciare, di accantonare il sogno per altri tre, quattro o quanti anni mai ci sarebbero voluti e di trascorrere le vacanze estive in un piacevolissimo agriturismo siciliano come tutte le persone dotate di senno.
Poi però è arrivato giugno e le frontiere sono state aperte. A luglio le persone iniziavano a progettare viaggi più o meno brevi, preferibilmente nazionali, o ancor meglio regionali. A quel punto mio marito mi ha detto: ma insomma, qui o a Berlino cosa cambia? In realtà nulla, se tieni conto che Berlino e Catania sono entrambe in Europa.
Così siamo partiti. Con un po' di timore e tenendo la bocca chiusa, quasi fossimo dei ladri, perché dalle poche persone a cui avevamo confidato il progetto abbiamo ricevuto note di biasimo e ammonimenti sfiduciati. Ma dove andate con questa situazione, non è rischioso? Perché non restate nella vostra isola, è tanto bella! Sì, è vero, lo è, l'abbiamo visitata e continueremo a farlo. Ma non c'è solo la nostra isola e io mi sono sempre percepita una cittadina europea con residenza in Sicilia, non certo una siciliana ca megghiu i mia nan c'è nuddu. Per poter dire cosa c'è di meglio e cosa si può migliorare bisogna vedere le cose con i propri occhi, non farsele raccontare. Lo facevano già i viaggiatori illuminati del passato, Montesquieu, Stendhal, Kafka, viaggiavano perché dovevano guardare con i propri occhi. Lo vogliamo fare anche noi, ma non ne parliamo più quasi con nessuno. Non abbiamo bisogno che qualcuno ci ricordi quanto sia pericoloso. Prenderemo le nostre precauzioni, ma vogliamo andare, perché la paura non è una buona alleata per la realizzazione dei sogni.
Quando tante persone hanno iniziato a ripetermi che stavo sbagliando e che non era saggio fare questa esperienza adesso, ho tentato di credere che avessero ragione. Più volte nella vita ho preso scelte avventate e non sono nota come persona riflessiva, quindi mi sono interrogata sulle mie posizioni, domandomi se in effetti questo desiderio di andare non fosse l'ansia sprovveduta di una persona che ascolta più i propri sogni che i telegiornali. Dopo un po', però, ha cominciato a farsi strada in me un'altra possibile chiave di lettura che fino ad allora non avevo valutato. Le persone che mi stavano scoraggiando, che mi guardavano con insolente spirito di giudizio e condannavano la mia scelta in realtà avevano molta più paura di me. La paura non li avrebbe fatti staccare dal loro orto, ma affinché questo radicamento sembrasse loro ragionevole e opportuno avevano bisogno che tutti gli altri restassero arroccati al proprio. Se qualcuno fa diversamente, se qualcuno si muove, si sposta, continua il proprio itinerario di equilibrato nomadismo come mi piace chiamarlo, le certezze di quelle persone crollano ed è il loro mondo ad andare in frantumi. Ho capito che quell'opera di dissuasione non era buonsenso, ma terrore e invidia. Allora ho smesso di parlarne, non ho pubblicato sui social foto o video che testimoniassero minuto per minuto i nostri spostamenti, ho tenuto la connessione dati staccata per la maggior parte del giorno. Non ho bisogno di ricevere ammonimenti, devo solo godermi il viaggio. Quello che avrò da raccontare verrà dopo.
Avevo sedici anni quando ho iniziato a sognarlo, poi ne ho avuti diciotto, poi ne ho compiuti trentadue e ho comprato i biglietti. Nel frattempo ho conosciuto Salvo e mi sono sposata e adesso capisco che non potevo farlo prima questo viaggio perché aspettavo il compagno perfetto, che prima non era ancora arrivato. Ora c'è tutto, ci sono io, c'è lui, ci sono i nostri magnifici cani che ci aspettano a casa di amici carissimi che se ne prendono cura come se fossero i loro. C'è il nostro sogno davanti e la paura chiusa a chiave dentro un cassetto. Ogni tanto il cassetto trema e ne sento l'eco da lontano, ma so di aver girato la chiave e di non ricordare assolutamente dove l'ho gettata.
Perché il treno
In molti mi dicono che è da folli girare l'Europa in treno quando hanno inventato gli aerei che ti portano a destinazione nel minor tempo possibile. Il punto è proprio questo: a me non importa metterci il minor tempo possibile.
Trovo le procedure di imbarco su un aereo estremamente stressanti. Devi recarti in aeroporto almeno un'ora e mezza prima, sottoporti a tutti i controlli, consentire a un ufficiale autorizzato di guardare dentro la tua valigia e, qualora fosse necessario, scansionare parti varie del tuo corpo con appositi strumenti per la metal-detenction; il tuo bagaglio non deve superare determinate dimensioni, i liquidi sono consentiti solo in barattoli per bambole e la mia mente è davvero troppo limitata per capire quali armi chimiche possano mai essere nascoste in una bottiglietta di acqua minerale. Una volta a bordo devi allacciare la cintura, comprimere le gambe in uno spazio claustrofobico e fingere di non ascoltare le indicazioni con cui una hostess con le occhiaie già alle otto del mattino ti spiega cosa fare in caso di ammaraggio come se fosse la cosa più naturale del mondo. No, non è naturale che ci sia una anche solo remota ipotesi di ammaraggio. Non c'è. Tutte le procedure di imbarco su un aereo generano inevitabilmente in una persona mediamente sensibile (e io lo sono, molto) un senso ineludibile di ansia che può essere gestito, affrontato, tollerato in modi diversi, ma comunque è lì, latente e infido.
Il volo ci metterà pure solo cinquanta minuti, ma io mi sono alzata lo stesso alle cinque, ho guidato fino all'aeroporto, ho lasciato la macchina in un parcheggio che costa più o meno quanto il biglietto aereo, mi sono sottoposta a meticolosi controlli e soprattutto ho mantenuto i muscoli contratti per tutti e cinquanta i minuti di sospensione aerea, per cui all'atterraggio mi ritrovo sempre a cercare uno snack da mandare giù prima dell'antinfiammatorio di routine, per evitare che alla cefalea si unisca anche la gastrite. Ovviamente poi l'aereo ti ha portato sì a destinazione, ma all'aeroporto, per cui dovrai prendere una navetta, un bus, un taxi o qualche altro mezzo per arrivare in centro città, perché è certo che l'aeroporto sia sempre in periferia.
Quanto tempo effettivo c'è voluto per questo viaggio, dal punto di partenza a al punto b? All'incirca quattro ore. Questo è il tempo effettivo di un viaggio tipico Catania-Roma con mezzo aereo senza contare eventuali ritardi.
Io a Roma vado diverse volte l'anno e prendo sempre il treno. Si parte da Catania centrale alle 22.58 e si arriva alle 07.15. All'ingresso in stazione non devo fare altro che aspettare che arrivi il treno e salirci sopra, posso portarmi un bagaglio grande quanto la mia stanza, se voglio, e anche una cassetta da sei di acqua da due litri. Passa il controllore mentre sono già in cuccetta, gli mostro il biglietto, poi accendo la mia lucetta da lettura e dopo dieci minuti sono nel mondo dei sogni. Solitamente mi sveglio verso Latina, ho il tempo di usare la toilette, legare i capelli, bere un po' d'acqua e sono arrivata al centro di Roma. Tempo di viaggio percepito: venti minuti, perché per il resto del tempo ho dormito. Ho anche risparmiato parecchio perché viaggiare in treno è molto più economico di viaggiare in aereo e ho fatto del bene all'ambiente perché, forse non tutti lo sanno, ma le emissioni di gas inquinanti sono esponenzialmente meno dannose se si viaggia sui binari.
Trovo ancora più belli i viaggi diurni o quelli notturni in cui la mattina hai ancora qualche ora da passare a bordo dopo il sorgere del sole prima di arrivare a destinazione. In quei momenti mi attacco al finestrino, con il mio quaderno per scrivere e un po' guardo fuori un po' prendo appunti di pensieri sparsi e mi sembra di essere in pace con l'universo.
Gli aerei ci hanno dato tanta comodità. Chi ha un appuntamento di lavoro nel pomeriggio a Milano e di mattina si trova a Londra può tranquillamente arrivare puntuale con un volo di nemmeno due ore. A noi sembra normale, ma per un nostro antenato di neanche un centinaio di anni fa era fantascienza. Tuttavia questa comodità ha un prezzo, perché io trovo che si perda il senso del viaggio. Le distanze vengono compresse, si ha solo un'idea aleatoria di cosa si sta sorvolando, tutto il focus viene concentrato dalla destinazione. Dove vai in vacanza quest'anno? In Grecia. Ma cosa hai dovuto attraversare per arrivarci? Uhm, non saprei, dell'acqua, insomma ha fatto tutto l'aereo. Il punto di partenza e il punto di arrivo diventano estremi scollegati. Il viaggiatore si astrae da casa e viene catapultato nell'isola del sogno o nell'arcipelago del paradiso e lo sente come un mondo altro, che non ha niente a che fare con quello che conosce. Si perde il senso della continuità. L'Europa sembra sempre fatta di pezzi slegati, raggiungibili solo da quei punti di lancio che sono gli aeroporti.
La verità però è che l'Europa c'è, è una terra continua, un crostone che dalla punta più remota dell'Andalusia al vertice estremo dei fiordi norvegesi procede senza soluzioni di continuità se non brevi intervalli di mare, come virgole in un discorso. A discapito di quanto i telegiornali dicano e la stampa diffonda, questa insanabile frattura europea non esiste. La tavolozza è la stessa, un'unica tela su cui il pittore ha tracciato itinerari cromatici diversi, a volte ha usato acquarelli, a volte olii, ma ha lasciato comunque tutto sulla stessa superficie. Non sono così sciocca da non sapere che per raggiungere certi posti è indispensabile volare e che se voglio tornare ancora in Giappone mi toccherà prendere un aereo. Ma non è del tutto escluso che lo possa raggiungere via terra, con la celebre Transiberiana che porta a Vladivostok nella punta più orientale della Russia da cui prendere un traghetto per le isole del Sol Levante. E anche quello sarebbe un sogno e allora sì che la continuità sarebbe ancora più evidente, l'Europa diventa Asia senza mai segnare un vero punto di cambio. Prendete un mucchio di grano e cominciate a rimuovere i chicchi che lo compongono formando un altro mucchio. Quand'è che il primo mucchio smette di essere un mucchio? Quale chicco determina esattamente il passaggio dalla condizione di mucchio a quella di non mucchio? E' un paradosso filosofico senza soluzione e così è per il mondo. C'è un momento preciso in cui l'aereo decolla da Roma e atterra a Tokyo e lì percepisci senza dubbio di essere da un'altra parte. Ma attraversando l'Europa in treno, da Firenze a Istanbul, passando per Bucarest e Sofia, in quale momento esatto senti di non essere più in Europa?
Non ho una risposta e sinceramente non credo che esista. Penso solo che i treni offrano più possibilità di conoscere la nostra specie e quello che abbiamo costruito rispetto agli aerei e pertanto amo questo tipo di viaggio.
Budapest
Dopo la partenza da Catania e una giornata trascorsa nella capitale italiana, prendiamo il treno notturno da Roma a Vienna. Io ho viaggiato varie volte sui notturni italiani, come dicevo, ma questo nightjet è superlativo. Le cuccette sono spaziose e comode, tutte dotate di lavabo privato. Nel kit di benvenuto ci sono ciabatte, tappi per le orecchie, asciugamani in microfibra, biscotti, wafer, disinfettante e ben due bottigliette d'acqua, il che non è roba da poco, considerato quanto costa idratarsi fuori dall'Italia. Nel bagno in corridoio c'è persino la doccia, qualora qualcuno abbia bisogno di darsi una rinfrescata prima di scendere. Poco prima delle nove un controllore molto cortese ci offre prosecco in bottiglia di vetro, una per ciascuno. Si dorme splendidamente qui sopra e all'alba, quando sollevo l'oscurante stiamo attraversando un'incantevole paesaggio austriaco, tutto distese verdi e case di campagna con gli steccati in legno. Alle sette ci portano la colazione, compresa nel viaggio, pane, marmellata, succo di frutta, yogurt, caffè. Come inizio non c'è male.
A Vienna ci fermiamo solo qualche ora, perché in realtà ci abbiamo già trascorso una settimana un paio di anni fa. Ne abbiamo un bel ricordo e in effetti non sarebbe spiacevole restare un po' qui, ma preferiamo dirigerci verso la prima vera tappa del nostro itinerario. Quindi, dopo una passeggiata nelle strade che circondano la cattedrale di Santo Stefano, saliamo su un railjet che in due ore e mezza ci porta a Budapest. Ho trovato online una pensione a un prezzo ridicolo e dal momento che le foto erano suggestive ho prenotato. Di solito non toppo in queste cose, ho una specie di intuizione per cui riesco sempre a beccare ottime soluzioni in rapporto qualità-prezzo. Solo una volta ho fallito alla grande, con un bb vicino stazione Termini che non aveva nemmeno una tenda per la doccia e ogni volta che aprivo il soffione si allagava anche la tavoletta del water.
Questa pensione si trova a Buda, nella parte antica della città, all'interno di una villa di primo Novecento che ha mantenuto l'arredamento originale. Le scale scricchiolano quando si sale al piano superiore, come nei più prevedibili film horror, ma la stanza è carina e luminosa, con un soffitto mansardato e un grande comò di legno massiccio. I cuscini sono di piume, così soffici e plasmabili che sembrano fatti di pane in pasta. I piumini sono due, separati e ripiegati a metà e credo che il copriletto sia stato ricamato a mano.
Molti ungheresi giovani sono belli, alti, atletici, con i peli delle gambe come paglia e i capelli di una tonalità che finalmente dà un senso all'espressione biondo cenere letta tante volte nei libri di fiabe per bambini. Hanno i tratti del viso indefinibili, perché non si riesce ad associarli a nessun cassetto dei tipi etichettati per nazionalità che nel tempo si sono radicati nella mente, pur con la consapevolezza che non ci sia nulla di meno classificabile nel mondo di un essere umano. Per questo sono affascinanti, sembrano essere scappati ad ogni possibile inquadramento etnico e scivolano fra le strade godendosi un privilegiato anonimato che ne fa a un tempo degli outsider e degli eroi.
La lingua è impronunciabile e illeggibile. Avevo studiato che fosse ugrofinnica, quindi con gli indoeuropei non ci azzecca una cippa. Non ha le circonvoluzioni gutturali dello slavo, né le rasposità aspre dei vari derivati germanici e all'orecchio suona piatta e senza inflessioni, come se tutto ciò che viene pronunciato avesse la stessa importanza.
Venendo da Vienna è impossibile non notare la continuità imperiale, basta guardare le cupole verde pongo di numerosi edifici sulle rive del fiume. Le facciate sono come case delle bambole gigantesche,così confettose da sembrare di pan di zucchero. Ci si sposta in tram gialli come quelli quelli che io, a questo punto erroneamente, ho sempre associato a Lisbona, fra eleganti palazzi rosa e avorio dai tetti spioventi sui quali geometrie ardite si sfidano a colpi di angoli acuti e insospettabili convessità. Dicono che la stazione della metro più bella del mondo sia in Russia, ma nemmeno quelle ungheresi scherzano. C'è una sorta di romantica malinconia sulle piastrelle bianche e rosso sangue della fermata Opera o di Oktogon o di altre i cui nomi hanno troppe dieresi e accenti perché possa scriverli con la certezza di non commettere errori. Mio marito ama viaggiare in metropolitana perché lì trova il materiale umano più carnale e sudato, che immortala nei suoi scatti con cui cerca sempre di cogliere quel frammento di resistenza sfuggita alla misera della condizione vivente.
Qui è come se certe cose fossero scappate alla pressione del tempo e anelino con sospiri densi a un passato fatto di carrozze e lampioni a olio. Certi luoghi riescono a sopravvivere meglio a questa pulsione e si reinventano nella versione più cool e cosmopolita di se stessi, come i ruin pub del quartiere ebraico, ma la maggior parte sembra appena rinvenuta da un sogno lungo un secolo e chiedersi che fine abbiano fatto gli Asburgo.
Ai due lati di Piazza degli Eroi ci sono due gallerie artistiche e visitiamo il Museo di Belle Arti. Io non sono una che nei musei si sofferma a guardare quadro per quadro. Amo il silenzio e un certo odore di vernice che la mia mente ha sempre associato al profumo dei biscotti appena sfornati. Mi piace camminare, sentire i pavimenti di legno sotto le scarpe e soffermarmi solo quando mi colpisce un certo sguardo, una lama di luce negli occhi di un ritratto o il particolare colore verde brillante di un drappeggio o di una stola. Per esempio mi colpisce il dipinto della Musa Thalia realizzato da Michele Pannonio per decorare lo studiolo del marchese Leonello d'Este. Mi sorprende quanto sia brutta questa musa. Abituata alle madonne allungate dalla pelle diafana che pullulano nella nostra tradizione iconografica, la visione di questo viso sgraziato, dalle sopracciglia corrugate e il corpo grottescamente sproporzionato mi turba e mi chiedo se Leonello sia stato felice del dono ricevuto o abbia inflitto al Pannonio le più severe pene corporali per tale affronto. A meno che la modella non fosse stata la moglie del marchese che in quel caso non avrà potuto fare altro che ringraziare l'artista ed esporre la tela, rassegnandosi al supplizio di soffrire la condanna alla bruttezza toccatagli in sorte, non solo una, ma addirittura due volte.
C'è un artista ungherese che nel Settecento dipingeva nature morte con pappagalli e cacatoa, una vera rarità come soggetto a cui tuttavia viene relegato un angolino all'ultimo piano, in mezzo a statue di cavalieri medievali alte più di due metri.
Al museo sono esposti anche gli Adamo ed Eva Di Grien, quelli della sigla di Desperate Housewives, per intenderci. Illuminati a regola, sono fra i pezzi forti della galleria. E tenendo presente la mia sfrenata e irragionevole passione per le storie della Genesi, non mi sfugge che l'artista non abbia messo il serpente nel quadro di Eva, ma in quello di Adamo, intento a parlare con lui, anche se lo sguardo della compagna, nella tela accanto, è puntato assai lascivamente sulle parti basse di lui. Così, fra le innumerevoli variazioni sul tema, mi domando se anche questa possa essere una chiave di lettura e se le cose, chissà, siano andate esattamente come sono state scritte.
La vita notturna non è stata molto influenzata dalla pandemia. Nel quartiere ebraico i ruin pub sono gremiti di consumatori a tutte le ore del giorno. Lo Szirta Kert soddisfa i desideri di tutti: con le sue luci psichedeliche e le vasche da bagno al posto dei sedili è uno dei ritrovi preferiti tanto dagli ungheresi quanto dai turisti. Tuttavia il quartiere porta dietro ancora l'onta della storia: e tra un carrozzone di sandwich vegani e un sushi bar improvvisato si stagliano palazzi mal tenuti con le facciate traforate dai proiettili nazisti. In effetti, la mia sensazione è sempre la stessa, in tutta la città predomina questa atmosfera un po' decadente e bohémienne: dai negozi vintage ai sottoscala che puzzano di muffa, dai ponti di ferro alle panchine di legno delle stazioni metropolitane ogni cosa sembra essersi svegliata d'improvviso da un lungo sonno e guardare al presente con l'occhio sospettoso e languido di chi si è irrimediabilmente perduto qualcosa dietro le spalle.
Io amo mangiare e quando visito un posto cerco sempre la specialità gastronomiche. A Budapest naturalmente è il goulash, che assaggiamo in un ristorante su lago nel parco cittadino, dopo aver toccato l'Anonymous. C'è una leggenda intorno a questa statua, si dice che chi toccherà la penna che stringe in mano riuscirà a scrivere con successo una grande opera. Non conoscevo questa storia, l'ho scoperta quando i miei alunni di seconda hanno fatto una ricerca sulla città di Budapest e ho promesso loro che quando sarei andata in visita avrei toccato la punta miracolosa. Dato che il romanzo è finito da un pezzo, a questo punto magari è la volta buona che trovo un editore.
Sul fronte dolci invece è apprezzabile il flòdni, una specialità della tradizione ebraica che secondo Internet a Erzsébetvaros si trova ovunque, ma in verità sono rimaste poche le pasticcerie che lo preparano ed è anche facile capire perché. Con i suoi quattro strati di marmellata di prugne, crema di noci, composta di mele ed estratto di chiodi di garofano alternati a sottilissima pasta sfoglia non è un dolce da fare all'ultimo minuto quando aspetti una mezza dozzina di ospiti, insomma richiede il suo tempo. E come tutte le cose che richiedono tempo, posso garantire che è anche sorprendentemente buono (infatti non resisto e faccio il bis!)
Ogni città che tenga ha i suoi eroi civili e le sue icone letterarie. Budapest è la protagonista di un intramontabile romanzo di Ferenc Molnár, ai cui protagonisti è stata dedicato un complesso di statue in Práter utca. Se il libro ci fa toccare con mano l'inarrestabile scontro con la perdita dell'infanzia, lo scultore ha compensato dando a questi pupetti di bronzo il diritto di restare giovani per sempre, il piacere di giocare (o masticare lo stucco) per sempre. Ho riletto lo scorso anno I ragazzi della via Paal con i miei alunni di seconda e mi ha lasciata senza parole l'emozione di questa storia senza tempo, la dignità di Boka, la lealtà di Nemecsek (povero Nemecsek!) e la sorprendente signorilità di Feri Áts, che è nemico, sì, ma sa riconoscere il valore di un soldato anche quando appartiene alla banda rivale. Tutti i giocatori fanno così? Ogni avversario sa essere così corretto? Dovremmo proprio dare tutti una bella ripassata al libro e farci insegnare da quel pugno di ragazzini com'è che ci si comporta.
Ad ogni modo, Budapest ci guadagna di notte. Con una complessa e studiata opera di illuminotecnica i principali monumenti cittadini la notte risaltano di calde sfumature suggestive e accoglienti che ne intensificano l'aura fiabesca. Dal Castello di Buda al Bastione dei Pescatori, passando sotto lo splendido ponte delle catene per arrivare all'imponente e immenso Parlamento, la città vista dalle acque del Danubio durante un breve giro in battello dopo il tramonto regala prospettive romantiche e languide che non possono lasciare indifferenti gli estimatori di una vecchia Europa, quella fatta di storia e dinastie, reggie dorate e abiti sontuosi che da qualche parte, in una lontana memoria, danzano ancora nel ricordo di un tempo che, proprio come l'acqua di una fiume, scorre via inesorabile, lento e incantato.
Praga
Il nostro è un viaggio in treno e l'imprevisto è messo in conto. Molta gente, leggendo quello che sto per raccontare potrebbe rinforzare le proprie rimostranze riguardo le vacanze su rotaie; io però trovo che l'intoppo, fastidiosissimo mentre lo si vive, diventi la materia più succosa del racconto e quindi, ai fini narrativi, abbia un valore decisivo. Che storia noiosa sarebbe, una in cui tutto è filato liscio come il famoso olio! Dunque, prima di parlarvi della città di Praga, vi racconterò l'avventura che abbiamo vissuto per arrivarci. Se vi annoia, non siete tenuti a leggerla e potete skippare agilmente alla parte in cui comincio a elogiare le bellezze della città senza soffermarmi sui disagi. Ma sappiatelo: vi perdereste la parte giullaresca del viaggio.
Il progetto è partire da Budapest alle 08.55, pranzare a Vienna e ripartire alle 13.10 su un EC con destinazione finale Berlino, scendendo a Praga. Peccato che intorno alle 14.30 il treno si fermi in mezzo al nulla per un guasto tecnico e una signorina biondissima in camicia bianca e foulard blue navy ci informa che resteremo lì in attesa di risoluzione una barra due ore. Tuttavia, i passeggeri che scendono prima di Berlino possono andare a cercare un treno più lento che li conduca a Brno, da dove prendere la coincidenza per Praga. Seguiamo il suggerimento, anche perché con il treno spento e 32 gradi fuori, rischiamo di liquefarci, ma il regionale sul quale incappiamo è anche peggio. Sedili in finta pelle che si appiccicano a ogni centimetro di epidermide scoperta e fanno aumentare la temperatura percepita a 50 gradi, esattamente come nella tradizionale linea Catania-Roccalumera, rimasta immutata dal 1961. E poi diciamo che la Sicilia non è come l'Europa. Bisogna vedere quale Europa!
Fatto sta che sopravviviamo per 40 minuti e arriviamo a Brno, seconda città della Repubblica Ceca. Alla stazione c'è un manicomio, neanche gli altri treni per Praga sono in orario e nessuno, nemmeno controllori e poliziotti, indossa la mascherina. Ci guardano tutti come alieni perché noi da bravi italiani postcovid andiamo in giro in modalità rapinatore.
Così, per far fronte al caldo insopportabile (a quanto pare i treni a lunga percorrenza non sono l'unico punto di contatto fra Sicilia e Repubblica Ceca) ci infiliamo in un Costa Café del centro per ripristinare i livelli di zuccheri e idratazione con un mix di torta alle carote e sparkling water (che qua si dice Jemne perliva o almeno così c'è scritto sulla bottiglia). Tornati in stazione, finalmente alle 18. 15 prendiamo un treno schedulato per le 17.39. Ma una volta saliti ci accorgiamo che è tutto prenotato e c'è gente stipata anche nei corridoi, altro che distanziamento sociale. Mi sento un po' come il reporter di guerra che si trova in mezzo al fuoco incrociato per documentare gli eventi. Le porte si sono già chiuse e non possiamo più scendere. Fa niente, dico, aspettiamo in piedi accanto alle porte, tanto qui non c'è altra gente, e scendiamo alla prossima. Ma a quel punto una bionda di passaggio all'altro vagone mi dice in un inglese spolverato con un delizioso accento slavo che la prima fermata utile è a Kolin, a due ore di strada. Mio marito sta per sciogliersi, gli gronda la faccia come uno scolapasta, la mascherina si inzuppa e i miei occhiali si appannano. Va bene, rassegnamoci. Ci sediamo sugli scalini davanti alle porte di uscita, con gli e-reader nelle mani. Mi sento come il nostro pastore australiano che quando stiamo in ascensore punta il muso contro lo stipite della porta per essere il primo a uscire. Il rollio del treno mi calma, io ci potrei passare la vita su queste rotaie dondolanti e mi concentro sulla lettura, cercando di dimenticare quanto caldo ci sia. Ho imparato che quando non puoi fare nulla per cambiare le cose, puoi sempre cercare di trarre il meglio dalle situazioni difficili. Del resto, anche dal limone più secco, se insisti e spremi, viene fuori del una goccia.
A un tratto una voce dall'interfono annuncia una fermata straordinaria a Ceska Trebova. Dove caspita è Ceska Trebova? Non ho idea, ma balzo in piedi. Il controllore cerca di persuaderci a restare, tanto mancano poche fermate, ma io altre due ore seduta con le spalle al cesso non me la sento di farle. Abbia pietà, è stato un bel revival dei tempi adolescenziali al centro sociale, ma va bene così.
Troviamo subito un altro regionale in partenza per Praga con l'aria condizionata e un'intera cuccetta libera tutta per noi, simile a quelle dei Trenitalia Intercity diurni. L'arrivo è previsto alle 21.02 e vi anticipo che ce la facciamo, arriviamo! Ma non è solo la destinazione che conta. Sì, perché da questo treno si vede un paesaggio mozzafiato. Boschi di alberi altissimi dal fusto bianco, ruscelli, casette dai tetti rossi in mezzo a prati ricoperti di fiorellini colorati. Il disagio di una giornata è compensato da un panorama da cartolina che se fossimo rimasti sull'EC per Berlino ci saremmo persi.
Corollario all'avventura è l'arrivo in hotel. Mio marito cerca sul navigatore e vede che il Majestic Hotel prenotato su Booking si trova a soli 700 metri dalla stazione, quindi possiamo andare a piedi, non serve il taxi. Ci incamminiamo, stanchi, impolverati e affamati, nell'aria serale umida e calda. Purtroppo, però, alla reception dell'hotel l'impiegato cordiale che non trova la mia prenotazione ci chiarisce che non abbiamo riservato una camera da loro al Majestic, ma al Grand Majestic che si trova dall'altra parte della città. A quel punto il taxi è inevitabile. Finalmente depositiamo i bagagli nell'albergo giusto e usciamo a mangiare, ma nonostante Praga sia una grande capitale scopriamo con sgomento che quasi tutte le cucine chiudono alle 22. Per un catanese questa cosa è inaccettabile. Alla fine, troviamo una pizzeria italiana che resiste fino alle 23 e violando i nostri propositi di non mangiare mai italiano all'estero ordiniamo una marinara e una tonnara che, inaspettatamente, sono pure buonissime.
La prima impressione dall'arrivo in Repubblica Ceca, quindi, non è positiva. Mi sembra di essere arrivata in un epicentro caotico e mal organizzato, dove l'inglese era studiato a scuola con lo stesso interesse nutrito dagli studenti italiani per l'ora di religione e le cose funzionano un po' come nel nostro Paese, cioè male. Ma mi sbaglio alla grande, devo ammetterlo. Lo capisco fin dal giorno dopo, quando a mente lucida e pancia piena mi rendo conto che questa città è splendida e avrei dovuto prenotare per almeno una settimana in più. I primi di giugno di praghesi hanno decretato la fine della pandemia. Leggo su Internet che hanno allestito una tavolata sul ponte Carlo alla quale ha partecipato in massa la cittadinanza e tra fiumi di birra e carne arrostita è stato dato il ben servito al virus. In Repubblica Ceca non c'è obbligo di mascherina se non suoi mezzi pubblici, ma è più un consiglio che un ordine. Sembrano immuni dal contagio, loro, e non capiamo se esserne spaventati o affascinati. Non capiamo se sono del tutto fuori di testa o se gli sprovveduti non sono loro.
Ad ogni modo se l'impressione generale all'arrivo è stata il grande caos, ben presto il potere di Praga mi ha rapita completamente. Del resto, mi basta pensare che il 28 marzo è stato dedicato agli insegnanti ed è festa nazionale: avremmo parecchio da imparare da un Paese che ha compreso così il valore dell'educazione.
Praga ha il fascino strano di chi conosce un segreto e non vuole rivelarlo.
Passeggiare fra queste strade acciottolate ha il sapore arcano di un tempo fuori da tutti gli altri tempi e hai l'impressione di trovarti fra le pagine di un libro o i fotogrammi di un vecchio film a pellicola ipersatura, tanto i colori sono sgargianti. Una cosa che non mi aspettavo affatto è la musica. Nella piazza davanti il centro commerciale Palladium c'è un festival musicale e gruppi locali si esibiscono con melodie nativoamericane ricavate con strumenti artigianali e ritmi latini slavizzati con l'accostamento di violini struggenti a chitarre andaluse. Per godere della meraviglia sonora ci fermiamo in uno dei locali affacciati sulla piazza per bere una birra che - sia ben inteso - non è così leggera come dicono tutti. La musica continua ad accompagnarci ovunque. È nelle melodie Disney che provengono dal gigantesco Hamley's dello Stare Mesto, nel flautino dell'ambulante che propone ocarine sul Ponte Carlo, nei tamburi del corteo cinese che sfila dal castello alla Chiesa di San Nicola per protestare contro il traffico non autorizzato degli organi dei loro membri in Cina, nelle trombe del quintetto che la domenica, nello spiazzo antistante la cattedrale di San Vito, esegue successioni di motivi della tradizione popolare ceca. Praga ha posto per ogni voce, per ogni espressione di sé e dei gruppi a cui si appartiene. È un mercato a cielo aperto di tentazioni, bambole, pipe, sigari, decine di negozi di caramelle gommose, gioielli in moldavite, una pietra verdognola che si trova solo qui e che si presume derivi da un meteorite che impattò la Terra chissà quanti millenni fa.
L'albergo (quello giusto) è un'offertona. A due passi dal Palladium, è un quattro stelle super appariscente trovato su Booking con un'occasione. Paghiamo poco più di 50 euro a notte per un trattamento da re. Le stanze sono grandi, luminose e dotate di tutto, i bagni enormi, la colazione abbondante e cosmopolita. C'è anche un bar molto frequentato e una spa con il servizio massaggio thailandese. Unica pecca l'aria condizionata sparata a mille, ogni volta che entro nella hall devo mettere una giacca per non congelare.
Il cibo è delizioso. Ho voglia di assaggiare tutto. Non solo le pietanze sono appetitose,ma anche la presentazione fa il suo effetto. A Praga il senso estetico è anche nella disposizione di un piatto. Il goulash lo servono dentro una grossa pagnotta svuotata all'interno, con il cappuccio da sollevare come un coperchio. Le birre piccole sono portate dentro boccali più grandi della mia faccia. Centinaia di turisti affollano le strade vicine al ponte Carlo affondando i denti in un rotolo di pasta dolce e zuccherata, farcito di marmellata, crema o gelato, è buonissimo e si chiama Trdlo – si scrive così, ma non ho idea di come si pronunci, perché i cechi hanno un antico contenzioso con le vocali e praticamente nella loro lingua hanno deciso di non farne uso.
Le persone sono belle, con occhi incavati e profondi di un azzurro delicatissimo, sembrano zaffiri incastonati in gioielli preziosi. Hanno tatuaggi grandi e colorati che occupano braccia, gambe o l'intera schiena e bevono birra in lattina a tutte le ore, anche con le cannucce di plastica. Ci sono tantissimi gemelli, sia neonati che adulti e vanno in giro vestiti in modo identico. Non mi era mai capitato di vederne una concentrazione così alta, ma cosa danno da mangiare alle donne in gravidanza, sarà la Pilsner a raddoppiare la prole? A diverse persone, invece, manca un arto. Anche in questo caso, è la prima volta che mi capita di trovare una concentrazione tanto alta di mutilazioni. Le sostituzioni dell'arto mancante sono fra le più fantasiose, protesi di legno, di metallo, di plastica, ho visto persino una un uomo con una gamba di bambola, che penzolava inerte dai fianchi come un salame essiccato.
All'alba Praga è magnifica perché sembra una principessa appena desta, al tramonto ha la malinconia soffusa delle fiabe narrate da una voce affettuosa prima di andare a letto. Riascolto per l'ennesima volta pezzi de L'insostenibile leggerezza dell'essere nella mia versione audiolibro e i nomi di tutti i personaggi, i loro gesti, il classico russo fra le mani di Teresa e l'appartamento a uso e consumo di uno scapolo di Tomas mi appaiono davanti agli occhi concreti e lucenti.
Nel mio delirio estatico letterario immagino Kafka soffrire e odiare questa città che nei suoi romanzi non compariva quasi mai, se non come sfondo immaginabile, un cerchio di ferro dal quale non si poteva fuggire.
Tre giorni passano senza che me ne accorga. Sarei rimasta ancora a lungo, a passeggiare nello Stare Mesto, fino a riempire ogni fibra di questa atmosfera. Probabilmente è vero che c'è della magia in questa città dell'occulto, resti avvinto al sortilegio giorno dopo giorno come nella migliore delle fiabe, quando scopri che il castello dove hai mangiato e bevuto a sazietà è incantato e non puoi più lasciarlo. Ma noi dobbiamo rompere l'incantesimo, a malincuore, con il prospetto della nuova destinazione. Nella speranza che questo treno non subisca disagi, ci dirigiamo in Germania, per raggiungere Berlino.
Berlino
Io su un treno ci potrei vivere. L'ho già detto? Mi potrei svegliare ogni mattina con una scenario diverso, trascorrendo la giornata a guardare il paesaggio, scrivere le mie storie e leggere libri di altri. Un eterno viaggio su rotaie, per me, sarebbe la forma perfetta del paradiso.
Il treno EC 174 che da Praga ci conduce a Berlino corre per un tratto lungo le rive dell'Elba e lo spettacolo è incantevole. Fino a Dresda è un susseguirsi di colline lussureggianti che si riflettono sull'acqua cristallina e il verde degli alberi e l'azzurro del cielo giocano con contrasti di colore da cartolina. Le case quadrate dai tetti rossi delle ultime località della Repubblica Ceca cedono il posto a tetti spioventi e facciate bianco latte non appena passato il confine per la Germania. Dresda la vediamo dalla stazione e mi mette addosso una sensazione di tristezza, con le sue svettanti cime nero fumo e le guglie austere delle chiese gotiche. Sarà una città bellissima, ma per me è filtrata dalla lettura di Mattatoio n.5 di Vonnegut e ogni volta che mi viene in mente mi prende un enorme senso di pena per quello che succede durante il bombardamento.
Procediamo, destinazione Berlino. Poco prima di Cottbus il treno rallenta e si ferma. Fuori dal finestrino solo il giallo stinto di una spianata di erba secca del tipo che trovi nell'ennese o nel nisseno. Una voce registrata in tedesco annuncia qualcosa che non capiamo. Incrocio lo sguardo di mio marito e so che sta pensando la stessa cosa che penso io, ma non vogliamo credere nelle probabilità che si ripeta una cosa simile a quello che è capitato per arrivare a Praga. E in effetti tiriamo un sospiro di sollievo quando una decina di minuti dopo il treno riprende la sua corsa senza problemi, confermando almeno per questa volta l'improbabile ripetersi della stessa situazione in un periodo di tempo tanto ravvicinato.
La prima impressione di Berlino non è entusiasmante, ma a differenza di Praga, che dopo un iniziale smarrimento mi ha catturata nel sortilegio, qui la situazione non migliora nemmeno i giorni successivi.
L'albergo è una delusione. Certo, si trova in una posizione perfetta, a due passi dalla fermata di Friedrichstrasse nel cuore del rinomato quartiere Mitte, ma le camere sono minuscole e la colazione ridicola. Ho passato anni a dormire in ostelli e ritrovi di fortuna e non è certo l'accomodamento low cost a preoccuparmi, ma in questo caso abbiamo pagato profumatamente, più di Praga e Budapest e la spesa non è giustificata dalla qualità dei servizi alquanto discutibile. Ci sono solo due ascensori per servire stanze disposte su otto piani e la mattina, se tutto va bene, bisogna fare una coda di venti minuti per riuscire a prenderne uno vuoto che vada al piano di sotto. Il wifi è penoso e il televisore riesce a captare solo una decina di canali. Infine, per rendere il tutto ancora più sgradevole, la direzione ha deciso di attuare lavori di manutenzione straordinari, per cui alle nove del mattino rumori molesti di trapani rotanti e martellate rimbombano dal piano di sopra della nostra stanza. Lo so, le nove non è piena notte, ma io durante l'anno mi sveglio alle sei e non sono una persona mattiniera, quindi d'estate, mi dispiace, ma voglio dormire quanto mi pare.
Berlino mi appare impenetrabile e diffidente. E' una città che non riesco a capire. Di certo non si tratta di una meta turistica punto e basta, dove vieni in vacanza per cambiare aria. Qui è stata decretata la storia dell'Europa, dal Medioevo, quando la Germania era il fulcro dell'Impero, alla più recente e triste pagina di storia contemporanea. Qui non si viene per ritemprarsi e svagare, ci si viene per lavorare o per cercare di capirci qualcosa tra quello che è capitato alle generazioni prima di noi. Ma dato che ciò che è accaduto è talmente doloroso, drammatico e incomprensibile forse anche per gli stessi tedeschi, la sensazione che mi trasmette Berlino rimane quella di un codice da decriptare.
Tante persone amano questa città, è funzionale, moderna, efficiente e vivacissima, con la sua capacità di tributare ancora energia e incentivi alla cultura underground. Io però non ci arrivo, percepisco la mia ignoranza e la limitatezza per cui mi sento tagliata fuori da tutto.
Aggiungo anche che ho sempre avuto una discreta capacità di percepire la vibrazione di un luogo e sono fermamente convinta che l'atmosfera, la terra e l'acqua registrino le emozioni di secoli e secoli. Lo scorso anno, passeggiando per la gola di Vintgar in Slovenia, ho percepito un senso di totale benessere, di possibilità e di sogno che mi ha nutrita come se mi fossi dissetata a una sorgente di vita. Qua, invece, sento un peso, una sorta di pece vischiosa e densa che mi si appiccica addosso come colla. Non voglio dire che non è possibile liberarsi dall'onta della storia, perché si può fare molto per depurare ciò che è stato corrotto. Le acque del Gange, analizzate chimicamente, sono fra le più pure del mondo, eppure ci buttano i cadaveri là dentro! Tuttavia, giorno dopo giorno, i fedeli intonano preghiere e canti e inni e le vibrazioni sonore modificano la composizione dell'acqua, purificandola continuamente. Sicuramente nel tempo anche qui è stato fatto molto per riconvertire e sanificare, per rialzarsi e ricostruire e con innegabile e ammirevole successo, perché nessun Paese è più fenice della Germania. Ma io non riesco a sentirne lo spirito, è come se fossi sintonizzata sulla frequenza sbagliata.
I musei sono splendidi, è vero. Un appassionato di arte dovrebbe trascorrere a Berlino almeno un paio di settimane per goderseli tutti. Noi ne scegliamo solo alcuni, che in effetti sono assai interessanti. Cominciamo con la Alte Nationalgalerie, opere di arte moderna, con quelle perle di Shinkel e Friedrich che valgono già da sole tutto il prezzo del biglietto. Divertentissimo invece il museo della DDR che racconta in modo interattivo la vita nella Germania dell'Est: tra cassetti che si aprono e ante a scomparsa che mostrano barattoli di conserva, pagelle scolastiche e passaporti, mi sembra di tornare bambina e giocare in un'immensa casa delle bambole. Una giornata intera la trascorriamo allo zoo e all'acquario, accarezzo caprette e asini nella fattoria didattica e mi sento felice come i bambini che regnano sul parco con le loro famiglie o le loro classi. Un altro pomeriggio lo dedichiamo al Body Worlds, l'istallazione di corpi platinati alla scoperta del funzionamento del corpo umano. Passeggio fra plastici di reni e polmoni, ripenso alle scolaresche tra le foche dello zoo e lì un sospiro mi sfugge, perché fare scuola in posti così sarebbe la vera rivoluzione. Invece in Italia si disquisisce sulle forniture di banchi monoposto rotanti e il pensiero di tanta miseria intellettuale nel Paese che ha inventato il Rinascimento mi riempie di una tristezza che solo chi fa l'insegnante per passione può comprendere.
Berlino è anche carissima. Nella maggior parte dei chioschi 33 cl. d'acqua la vendono tra i 2.70 e i 2.90 che nel mio paese si chiama furto legalizzato. Anche spostarsi costa un occhio e la carta dei trasporti settimanale ci costa quanto tre notti di hotel a Budapest. Becchiamo anche i cinque giorni più caldi di tutto l'anno, le temperature si aggirano intorno ai 34-35 gradi, i berlinesi sono contenti, finalmente il sole, ma noi no, se volevamo continuare a scioglierci restavamo nella nostra cara, vecchia Sicilia. Ma non voglio farne una colpa alla città, non è certo colpa dei tedeschi se il clima non è di mio gradimento.
Alla resa dei conti poco importa se io e Berlino non ci siamo prese: ci siamo fiutate, da brave diffidenti, ci siamo rispettate e abbiamo desunto che non siamo fatte l'una per l'altra. Del resto non è mica detto che ogni posto sia quello giusto per l'anima. Quanto meno, questa volta non me ne andrò con l'occhio languido che batteva già nostalgico alla partenza da Praga e posso guardare con curiosità ed entusiasmo al nuovo approdo del nostro fantastico viaggio: Amsterdam.
Amsterdam
In treno ci vogliono circa sei ore e mezza da Berlino ad Amsterdam. Non ci sono cambi da fare, ma le fermate sono parecchie, anche Hannover e Osnabrueck, meno conosciuta, ma assai famosa per i trattati conclusivi della Guerra dei Trent'anni. Dalle nostre parti questo capitolo di storia è trattato sempre in modo veloce, serve a comprendere la nuova definizione degli equilibri europei, ma in realtà quel conflitto non è stato così influente per l'Italia, pertanto non lo si approfondisce più del necessario. Invece, si tratta di una pagina imprescindibile della storia europea e viaggiando da Praga a Berlino in treno certe dinamiche geografiche emergono con nettezza. Fra l'altro, in questi giorni leggo un libro perfetto, Tyll di Kehlmann, la storia delle avventure fatate e leggendarie dello stregonesco giullare Tyll vissuto nel XVII secolo e assunto anche dal re d'inverno, quel Federico di Boemia che fu sovrano solo pochi mesi, ma causò un marasma perpetrato fino alla pace di Westfalia. La lettura ha il potere straordinario di ampliare le possibilità della vita umana e renderle fluide nel tempo e nello spazio. Leggere e viaggiare insieme è il connubio idilliaco del sognatore, che si libra nell'esperienza dell'immaginario visibile e invisibile, insieme, tutto in una volta. E' estasi panica e se vogliamo anche un po' mistica, dipende dal grado di coinvolgimento spirituale di chi si accinge a intraprendere il viaggio.
Amsterdam è accogliente come una tazza di cioccolata calda in un pomeriggio d'inverno. Solo che a Berlino facevano 34 gradi, qui ce ne sono 22, scoppiano acquazzoni improvvisi e di mattina c'è pure la nebbia. Perfetto. Noi adoriamo questi pungenti capricci climatici d'Europa, perché nella lista delle cose che ci stanno strette della Sicilia c'è proprio il clima. Non è vero che è mite. La primavera e l'autunno non ho mai avuto il piacere di conoscerli e tutto il resto è un'esagerazione, l'estate troppo calda, l'inverno troppo umido. A Gennaio sento più freddo a Catania che a Londra.
Amsterdam ha il fascino artistico dell' improbabile. Le casette strette e lunghe, che ho sempre ammirato nelle cartoline e nelle calamite, sembrano i denti basculanti di un ragazzino di sei anni. Si incastrano a forza, come pezzi di lego che una mano paffuta vuole fare entrare a tutti i costi nel posto sbagliato.
Le olandesi hanno quella bellezza strafottente di chi è venuto su bene. Per me, che sento freddo pure a Ferragosto, la nonchalance con cui le ragazze nordiche sfoggiano bellissime gambe muscolose e statuarie, nude sotto gonne svolazzanti a fiori, mi ipnotizza in un'estasi contemplativa che non esime un pizzico di invidia. Addentano panini di semola con formaggio spalmabile alle erbe, offrendomi altri spunti da ammirare sospirando: per il pane duro che i miei denti difettosi non possono mordere e per i derivati del latte, altrettanto tristemente esclusi dal mio repertorio alimentare, nonostante la tendenza sempre più frequente alla fugace arte dello sgarro. Altre indossano cappelli di tela bianca, comprano monoporzioni di sushi in confezioni di plastica e le consumano sedute sui gradini davanti ai market, infilandole in bocca con le mani. Lo so che riferirsi agli Amsterdammer come nordici non è appropriato, non siamo mica in Svezia qui, è Europa centrale bella e buona. Non dimenticate però che sono nata in Sicilia e per me è nord pure Reggio Calabria.
La gente è ingegnosa ed efficiente, trova soluzioni per tutto. Infatti il bello di Amsterdam è che ovunque ti trovi qualcuno ha già provveduto a ciò che ti serve prima ancora che tu capisca di averne bisogno. In uno dei numerosi ristoranti indonesiani della città ti avvisano che sotto il tavolo trovi i ganci in ferro per appendere la borsa. Nei pub, se la luce soffusa e le diottrie affaticate dal tempo rendono difficile il riconoscimento delle lettere sul giornale, ti forniscono gratuitamente occhiali da lettura. Su tutti i vagoni dei treni schermi accesi indicano la fermata successiva, l'orario previsto (che non è mai diverso da quello effettivo) e le prossime coincidenze che è possibile prendere da lì. Bisogna essere davvero molto molto ingenui se non ci si sa muovere ad Amsterdam: c'è un'indicazione per tutto, una soluzione per tutto.
Il quartiere a luci rosse si estende da piazza Dam oltre la parte retrostante il quartiere cinese e i negozi di biancheria intima e fantasiosi attrezzi erotici occupano il loro posto con la stessa dignità della bottega di artigianato liturgico pochi metri più avanti, accanto alla chiesa vecchia.
C'è posto e rispetto per ogni cosa. Tu credi in quello che vuoi, che sia l'erba o San Crispino, io ti rispetterò comunque.
Non ho mai visto una concentrazione così alta di librerie in un'area tanto ristretta. Olandesi, inglesi, americane, solo nel quartiere in cui dormiamo c'è ne sono cinque. Dentro ci raduniamo a frotte, sembrano negozi di elettronica in Italia al Black Friday,invece è solo lunedì, siamo in libreria e non è una candid camera. All'ingresso distribuiscono cestini con il manico, come quelli che trovi da Kiko o da Tiger e le persone li riempiono di libri. Sì, la gente compra canestri interi di libri. È come se qualcuno mi facesse continue carezze sul cuore.
Qui non è come in Repubblica Ceca, dove i primi di giugno hanno decretato la fine della pandemia festeggiando con un banchetto sul ponte Carlo. Le persone indossano le mascherine e vengono gentilmente invitate a camminare seguendo il senso di marcia nelle vie dello shopping. Chi va su un lato, chi viene sull'altro. Ci sono delle sagome bianche disegnate per terra che ricordano a quale distanza gli uni dagli altri bisogna stare. Non si percepisce una psicologia del terrore e il disagio principale per il turista è che deve prenotare i musei in anticipo online, indicando l'orario in cui intende fare la sua visita, così da evitare sovraffollamenti.
Non la trovo così spiacevole questa storia. Sono un po' misantropa, questo lo ammetto, ma il fatto di non avere più sconosciuti che ti spintonano in autobus e sapere che in generale tutti sono tendenzialmente più accorti all'igiene mi trasmette un piacevole senso di civiltà. Visitiamo la casa di Rembrandt praticamente da soli, alle due del pomeriggio, soffermandoci sulle sale in cui il pittore probabilmente realizzò i suoi capolavori senza calca e senza fiato sul collo. Ripenso alle volte in cui sono stata agli Uffizi e non ho mai potuto soffermarmi con calma davanti alle opere del Botticelli, perché c'era sempre qualcun altro che esigeva il suo ragionevolissimo diritto a osservare i dipinti dallo stesso privilegiato punto in cui mi ero piazzata con dispotico spirito di priorità. Questo spazio, questa distanza, non lo so se mi dispiace così tanto.
Ad Amsterdam non c'è accattonaggio. Le strade del centro sono pulite, i bidoni della spazzatura sono ovunque, si aprono premendo un pedale con il piede e quando butti dentro una carta su un piccolo display appare un pollice alzato che ti fa i complimenti in olandese. Tutti parlano inglese con disinvoltura, non come a Berlino, che per tirargli due parole con le tenaglie dovevamo penare e in ogni caso i suoni venivano fuori così mal articolati e accartocciati che ci voleva una gran fatica per decifrare anche la comunicazione più lineare in sala colazione.
Potremmo fare moltissime cose, perché la città si presta tanto alla cultura quanto al divertimento, ma preferiamo trascorrere ore seduti nelle aree verdi o negli Starbuck's dove io amo scrivere sorseggiando un decaf coconut latte. Ho cercato posti simili dalle mie parti, ma non ho ancora avuto la fortuna di trovarne. Se ci sono, sono solo imitazioni poco cozy, per così dire, con Radio Italia sparata a palle sull'ultima hit di Baby K che non è proprio l'ideale per l'ispirazione.
Un pomeriggio andiamo a Rotterdam, a trovare degli amici di mio marito che si sono trasferiti in Olanda alcuni anni fa, hanno fatto un figlio e comprato casa. Rotterdam è un'altra imprevedibile sorpresa. Appena usciti dalla stazione il grattacielo del Marriott ti rapisce la vista e subito dopo una sequenza di facciate colorate apre l'avvio a una serie di prodigi dell'architettura che spuntano come infiorescenze in tutta la città. Sperimentazioni geometriche al limite del vivibile, un po' villaggio dei folletti un po' catalogo futuristico, Rotterdam è una continua rivelazione. Al grande mercato coperto, il Markthal, ci sono frutti di cui non conoscevo neanche l'esistenza. Trovo persino i salak, frutti dalla scorza rigida e squamata che avevo mangiato a Bali e credevo di non poter più riassaggiare, se non ritornando ancora in Indonesia.
La gente è tranquilla e rilassata anche qui. Non riesco a trovare una ragione effettiva, probabilmente si tratta di un complesso di cose, perché i nostri amici ci spiegano che lo Stato ti aiuta per tutto, gli rimborsa persino l'asilo del bambino e grazie a un sistema efficiente di prestiti è più facile comprare una casa che prenderla in affitto.
Io all'estero ho vissuto solo in due città. Una è Ciudad Real, duecento chilometri a sud di Madrid, ai tempi dell'università, un posto che non conosce praticamente nessuno, ma giuro che esiste e ha pure un campus piuttosto grande. L'altra è Londra, la mia città dell'anima, dove ho lavorato in un ristorante nel 2011. In tutti i viaggi che ho fatto nel tempo, non ho mai immaginato ipotetiche vite da nessuna parte al di fuori di Londra, invece adesso l'Olanda mi sembra una meta assai affine a me, a noi, al nostro modo di concepire la vita.
Ho la fortuna di fare un lavoro che mi piace molto, a cui mi dedico con passione perché mi appaga e mi entusiasma, ma non ho mai escluso l'ipotesi di poterlo svolgere da un'altra parte nel mondo, anzi, sto costruendo per trasformare il desiderio in una futura concreta possibilità. Chissà che questo futuro non sia proprio Amsterdam.
Scampoli di viaggio: Francoforte e Vienna
Il proseguimento logico del viaggio, per iniziare le procedure di rientro, sarebbe stato prendere un treno che in tre ore ci portasse a Parigi e da lì salire sul notturno per Milano. Tuttavia, quando alla fine di luglio in quattro e quattr'otto abbiamo organizzato tutto, la tratta Parigi-Milano era sospesa e nel dubbio abbiamo dovuto confermare il notturno Vienna-Roma, corrispettivo à rebours di quello preso all'andata.
Dal momento che il viaggio da Amsterdam a Vienna impiega circa dieci ore con varie coincidenze da prendere, decidiamo di fermarci una notte a Francoforte per affrontare il rientro con calma.
Abbiamo ormai compreso che la Germania non è il nostro paese ideale. Francoforte, enorme e caotica, ci stordisce. Fa un caldo tremendo e in più tira vento, quello afoso di scirocco a cui sono abituata, ma che posso tollerare a Catania, non nel bel mezzo della Germania. Le strade del centro sono affollate come la notte di capodanno ai Docks, mi sento tremendamente a disagio mentre cerco di svincolare in vie laterali lontane dal bagno sconsiderato di gente. C'è chi sta organizzando un addio al celibato nello spiazzo di fronte a un gigantesco Primark, chi si esibisce in performance di K-Pop e persino manifestazioni ecologiste. Una decina di ragazzi, in tuta da ginnastica e tappetino da yoga sotto il braccio, procede su file parallele a passi lentissimi, in mezzo alla folla sclerotizzata, per ricordare il valore di una vita lenta e contemplativa. Il principio è giusto, ma mi sembra tutto tremendamente fazioso. La zona del nostro albergo, nei pressi della stazione, somiglia moltissimo alla sua gemella catanese, è sporca, puzzolente e mal frequentata. Non vediamo l'ora di andarcene, insomma.
Ci svegliamo a Francoforte e alle tre siamo a Vienna. Di nuovo, lì dove tutto è iniziato. Inizialmente non pensavamo di fermarci qui una notte, l'intenzione era fare sosta qualche ora per prendere poi il nightjet con destinazione Roma; tuttavia, mio marito ama particolarmente questa città e in corso d'opera abbiamo rimodulato un po' l'itinerario per fermarci qualche ora in più qui. Devo ammettere che è uno dei momenti più belli del viaggio. Scoprire posti nuovi è sicuramente piacevole e arricchente, ma io trovo che ci sia qualcosa di magico anche nel rito del ritorno. Quante volte ho ricevuto critiche perché ad ogni occasione buona ne approfitto per tornare anche soltanto un paio di giorni a Londra! Eppure nel rivedere un posto conosciuto, nel camminare su strade già battute trovo ogni volta un senso appagante di assestamento dei sensi. Quel luogo non è più una vacanza, una sortita rubata ai doveri della vita adulta e relegata a sospiri nostalgici, ma una possibilità concreta di ripetizione, una ciclica riapertura verso la promessa di avere ancora una via di fuga che non limiti l'esistenza al luogo in cui abbiamo scelto di risiedere. Nel ritornare non c'è la frenesia della visita, la necessità interiorizzata di fotografare quel monumento e contemplare quell'opera d'arte, ma solo il godimento della città per ciò che la città è, con il suo ritmo, il suo oscillare nel ripetersi di ogni giorno, dall'alba al tramonto. Trascorriamo una splendida giornata al Prater, stesi sull'erba a leggere, a parlare, a guardare i cani che giocano e i bambini che si rincorrono e ogni cosa sembra combinarsi in un insieme armonico e perfettamente funzionante.
Vienna è la conclusione ideale di questo viaggio, chiude lo stesso cerchio che ha inaugurato e ci dona ore di pace difficilmente dimenticabili.
Ritorni
Mi sveglio sempre quando di ritorno dal continente il treno viene caricato sul traghetto. Succede anche stavolta. Sono le sei, stiamo lasciando Reggio Calabria e questo significa che ci faranno aspettare mezz'ora buona a Messina, perché siamo arrivati in anticipo. Ho totalizzato una cosa come 100 ore di viaggio su rotaie e mi abbarruo per gli ultimi chilometri fino a Catania. Taormina, Giarre, Acireale, duecento fermate. Neanche il tempo di arrivare in terra sicula e ho già ricominciato a lamentarmi e a coniare frasi che non sussistono senza dialetto.
Ho viaggiato per l'Europa in treno per tre settimane e adesso per la prima volta lascio la terraferma. L'interruzione della superficie, quel mare denso come mosto che sostituisce l'asfalto, è il segno concreto che mi fa percepire, stavolta in modo netto e incontrovertibile, la condizione dell'isola. Un'isola grande, la Sicilia, un'isola da sogno, paesaggi spettacolari, mare e vulcano, laghi e agrumeti, un'isola che potrebbe essere uno stato, ma è comunque pur sempre un'isola. E non importa se fra cento o duecento anni il governatore di turno avrà parenti stretti nell'edilizia e quindi deciderà di costruire il fantomatico ponte: l'acqua ci farà sempre da corona e, come tutti i bravi sovrani, ce ne faremo eleggere e percepiremo il senso isolato della solitudine.
Come ci si sente a conclusione di un'esperienza che hai sognato per metà della vita? Una volta la realizzazione dei desideri mi spaventava. Sono una visionaria, amo sognare a occhi aperti anche in momenti in cui non sarebbe appropriato farlo e quelle fantasie mi procurano emozioni elettrizzanti. A volte mi capita di procrastinare qualcosa per timore che mi deluda o semplicemente perché una volta che l'avrò realizzata non potrò più immaginare come sarà, cosa che per me consiste in buona parte del divertimento. Ho fantasticato per anni sopra i dettagli del mio matrimonio, un evento che oggi molte persone reputano niente più che un'istituzione medievale, ma che io ho sempre considerato l'inizio di un sogno. Sono molto romantica in questo senso e ho creduto che la vita coniugale equivalesse al principio di una gioia piena e condivisa. Ho atteso il giorno delle nozze godendo ogni secondo della sua preparazione, anche i momenti in cui pretese familiari più concrete e becere del mio ideale hanno messo a dura prova i miei nervi. Poi quel giorno è arrivato e l'aspettativa si è trasformata in ricordo. Quello che non avevo considerato era che il sogno potesse lasciare posto a una memoria dolcissima e felice, quella del giorno più bello della mia vita. Da allora non solo le mie fantasie non sono mai state deluse, ma mi hanno costantemente ricordato che la realtà può essere molto di più dell'immaginazione. Lo stesso, dunque, vale anche per il viaggio. Ho sognato questa avventura per anni e ora che l'ho vissuta mi sento triste o svuotata? No, non è così. Mi sento gioiosa e piena di gratitudine perché l'Universo ci ha consentito di realizzarla. E quando ho confessato a mio marito , con quel pizzico di trIstezza che accompagna la conclusione degli eventi, che questo è stato il viaggio più bello della mia vita, lui con i modi incantevoli di cui mi sono innamorata mi ha risposto con una sola parola: finora. Finora. Lui ha la magia di saper trasformare ogni finale in un inizio, ogni conclusione in una pagina bianca su cui ricominciare prima a sognare e poi a scrivere. È successo ancora una volta che la realtà ha superato l'immaginazione ed è stato tutto ancora meglio di quanto pensassi.
Adesso c'è spazio per lasciare circolare nuove immagini in quella fessura che inizia con finora e che si estenderà pian piano, fino a dilatarsi, fino a diventare un nuovo esaltante progetto. Ora che siamo sulla via di ritorno, su quell'ultima tratta di treno che ci riporterà nella nostra Sicilia comincio a fremere di piacere per l'emozione di aprire ancora la porta di casa nostra, scoprire come una sorpresa quanto le mura domestiche che abbiamo plasmato a nostra immagine ci siano care. Non vedo l'ora di lasciare che i nostri cani ci zompino addosso, di andare a fare la spesa nel market sotto casa e tirar fuori i vestiti profumati di bucato dalla lavatrice. Provo entusiasmo pensando che a breve rivedrò i miei studenti e anche se non nego di essere confusa e preoccupata riguardo l'incerto futuro della scuola italiana in questo nuovo anno, sono carica di adrenalina all'idea di preparare nuove lezioni, coinvolgerli in appassionanti letture, sperimentare progetti, giochi, strumenti che li aiutino nello splendido cammino dell'apprendimento. Spero in presenza, forse a distanza, in qualsiasi modo sia non vedo l'ora di cominciare.
Una volta ho letto una frase che diceva più o meno così: il viaggio perfetto è circolare, c'è la gioia della partenza e la gioia del ritorno. Forse è attribuita al fondatore del Touring Club, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Ad ogni modo mi è rimasta impressa e credo che contenga molta verità. C'è emozione nell'affrontare un viaggio nell'ignoto così come nel prendere un caffè con un caro amico. Questo me lo ricordo, lo ha scritto Erling Kagge, l'esploratore. Che dopo aver scalato l'Everest e viaggiato al polo Sud in solitaria ha il coraggio di dire che le sue avventure da Shackelton sono entusiasmanti tanto quanto andare a prendere i propri figli a scuola. Dipende da come si guardano le cose, allora può esserci magia in ogni nostra giornata.
Io ci credo e continuerò sempre a ringraziare per tutto quello che mi è stato concesso di vedere e sentire, per tutte le meraviglie che sono capitate sul mio cammino e anche per tutti i dolori, senza i quali, magari, non sarei arrivata comunque dove sono. Ringrazio per tutto quello che la vita mi ha fatto incontrare, vedere e toccare. Finora.