Generazione umana

GENERAZIONE UMANA



Dondola, continua, muoviti. È l'unico modo che hai di sfuggirgli. Colui che governa il mondo non ha potere sul movimento e sa che il nostro corpo in movimento è sacro, solo allora potrai sfuggirgli, una volta che sarei partita.

Olga Tokarczuk





Vedo un uomo realizzato. Quell'uomo a una cinquantina d'anni, lavora in un cubicolo due per due, seduto ad una sedia ergonomica su cui trascorre dalle otto alle dieci ore al giorno, con frequenti deambulazioni destinate alla macchina del caffè o al bagno e non necessariamente in questo ordine consequenziale. L'uomo realizzato la sera torna a casa e trova una cena pronta, due figli apatici che non hanno niente da raccontare, un programma di satira politica davanti al quale svuotare il cervello. Il fine settimana va a teatro, perché fa figo, ma dello spettacolo non capisce nulla e durante la successione delle scene pensa all'assist visto alla partita la sera prima. Nelle due settimane di ferie l'uomo realizzato organizza le vacanze con la moglie e gli amici di una vita, in una città europea, sempre perché fa figo, o in una spiaggia della costa calabrese o romagnola, per far felici i figli, che si sono fatti degli amici online da quelle parti.

Nessuno chiederà mai a quell'uomo se è felice e se qualcuno lo facesse sarebbe spiazzante perché la sua formazione non è destinata alla felicità. Alla realizzazione sì, ma non alla felicità. E ricordiamoci che la realizzazione è esattamente il quadro che è stato descritto.

Secondo chi? Bisognerebbe capirlo.

Io sono nata nel 1987 e mi hanno cresciuta nell'immagine della realizzazione, quella a cui abbiamo avuto il piacere di assistere. Se non avrai un posto fisso non sarai realizzato. Se non vedrai le parole tempo indeterminato sul contratto non ce l'avrai fatta. Ce la devi fare.

Voglio avanzare un'ipotesi aberrante, raccapricciante. Voglio dire che la nostra generazione è meno realizzata, ma più umana. Ed è più umana perché è una generazione in movimento. È una generazione precaria, come precaria è la nostra posizione su questo pianeta. Come è precaria la vita di una gazzella che si sveglia non sapendo se potrà riaddormentarsi al tramonto del sole o è precaria la vita di un pesce che non sa per quanto tempo potrà continuare a sentire la coda che lo spinge in mezzo all'acqua. Così come è precaria la natura di qualsiasi cosa appartenga al mondo allo stesso modo siamo precari noi. Ed essere instabili, vagare alla ricerca di qualcosa è quanto di più umano e naturale esista.

La nostra non è una condizione realizzata. Noi siamo in divenire, in mutamento. Sempre.

La generazione dei sistemati ci ha voluto propinare un'idea, quella di un percorso in linea retta, anzi, un percorso in salita. Scalare la vetta significa raggiungere dei punti, uno dopo l'altro e poi arrivare in cima. Il primo obiettivo è acquisire una buona posizione sociale, attraverso una professione soddisfacente – in termini di remunerazione, non di soddisfazione personale. Potresti essere felicissimo a fare il cantastorie per le strade, ma non guadagneresti in maniera dignitosa, non avresti una posizione Inps né ferie retribuite e qui ricordo che si sta parlando di realizzazione, non felicità.

Il secondo obiettivo è il matrimonio. Il terzo, i figli. Una volta che gli obiettivi sono stati realizzati si raggiunge l'ambita posizione del sistemato. Ma il sistemato non è una persona che segue il percorso naturale della propria vita, segue quello che per lui è stato previsto. Il sistemato è un ingabbiato. Persegue quegli obiettivi perché gli è stato insegnato che quelli devono essere raggiunti. Sono le crocette da mettere sulla propria mappa, la check-list da flaggare, le bandierine da appuntare sul planisfero di sughero appeso in salotto. Quello conta, il punto da raggiungere, non il percorso da fare. E una volta raggiunti tutti i check che cosa succede?

Si continua a percepire la soddisfazione dell'aver ottenuto un posto fisso anche dopo anni, si campa di rendita sulla scia dell'orgoglio di avercela fatta?

No. Perché l'essere umano per natura è un nomade. Un nomade emotivo, un nomade del pensiero. Per natura, l'essere umano così come tutti gli altri animali, deve esplorare. Allora, arrivato a coprire tutti quei vuoti, a toccare tutti quei punti, una volta messe tutte le crocette e i flag, dovrà fare qualcosa per variare il sistema nel quale è finito. È finito. Fate caso a queste parole. Quell'uomo è finito. Essersi sistemato significa letteralmente aver aderito al sistema. Ed ecco allora che fioriscono vie alternative, vie di fuga per riuscire a riavvicinarsi un po' di più all'erranza del se stesso. Potrebbe essere darsi all'alcool o alle droghe, potrebbe essere giocare online tutta la notte, trovarsi un'amante o due o tre, organizzare scambi di coppia e riti orgiastici per trovare la parte più scabrosa, cioè meno sistemata, di se stessi.

La generazione dei trentenni di oggi non è una generazione di sistemati. È una generazione di frustrati, il più delle volte, perché non si è riusciti a raggiungere entro quei termini profetizzati dai nostri genitori gli obiettivi che ci avevano palesato. Questo senso di frustrazione è analizzato quasi scientificamente nel bel libro di Raffaele Alberto Ventura, Teoria della classe disagiata, minimum fax. I tempi sono cambiati, rispetto a quando i nostri genitori avevano trent'anni e il senso di impotenza e malessere che sente un trentenne e anche un quarantenne di oggi è dovuto al fatto che non è riuscito a sistemarsi. Non è riuscito, in altre parole e con altri occhi, a sistematizzarsi.

Ma guardiamo bene cosa sta facendo il trentenne di oggi. Il trentenne che lavora per due anni nella ristorazione, poi le cose vanno male e apre un negozio di abbigliamento e poi magari prova a lavorare in un'agenzia turistica e per un po' di tempo guida un gruppo di connazionali su e giù per le Ande sfruttando quel po' di spagnolo che ha imparato dalla fidanzata di Valencia conosciuta durante l'Erasmus in Polonia. Nel frattempo ha cambiato compagna o compagno, mantiene rapporti labili con la famiglia che non lo capisce, ma intensissimi con gli amici fraterni conosciuti nel corso degli anni. Ha figli forse, cresciuti in famiglie diverse, nati dopo incontri occasionali o fortemente voluti per poi rivelare al proprio padre, una volta generati, che fra tutti i mestieri quello che proprio non sa fare è il genitore. O meglio, non sa fare il genitore così come gli hanno insegnato che si fa. Gli hanno detto che per essere un buon padre devi iscriverlo alla scuola calcio e aspettare sotto casa dei compagni di classe che finisca la festicciola della bambina bionda con le trecce per la quale si spera che il figlio abbia già una cotta, così da fugare fin da subito qualsiasi dubbio sull'identità di genere. Magari lo sa fare in un altro modo, portandolo alle sedute di gioco di ruolo live dove il primo a fingere di essere qualcun altro è proprio lui il padre. Sarebbe il modo più onesto di essere genitore, divertendosi insieme al proprio figlio, ma i parenti lo rimprovereranno di essere un eterno adolescente e suo figlio non ha bisogno di Peter Pan, ma di un adulto che paghi le bollette e imponga cena a base di adeguato apporto vitaminico.



Cosa impedisce a quella persona di essere veramente serena?Non il modo in cui vive, non la propria erranza professionale o emotiva o sentimentale, ma semplicemente il fatto che non è riuscito ad aderire a quello che era stato previsto per lui o per lei. Ma ora usciamo un attimo da questo schema. Quel trentenne, quel quarantenne, se non avesse mai ricevuto alcun tipo di indicazione, se non gli avessero mai detto dove doveva andare, cosa doveva raggiungere e quali check dover apportare sulla lista, adesso, arrivato a trentanni, mentre si sta godendo una birra nel suo locale di ristorazione temporaneo, quello che magari durerà solo sei mesi perché poi arriverà un'emergenza sanitaria mondiale che farà fallire in modo del tutto imprevedibile qualsivoglia neonata attività, in questo momento quel trentenne è lì, pienamente presente in quel momento. Non esiste la strada che ha fatto per arrivarci, né l'ansia per il percorso accidentato che gli si prospetta davanti. In quel momento, fermato nel tempo e nello spazio, con la spuma della birra gelata che gli solletica la barba, quel trentenne è vivo, quel trentenne c'è, quel trentenne è umano. Non è sistemato ed è molto più umano. Non è seduto davanti a un computer a compilare moduli ed è molto più umano. Noi non siamo la generazione del passato, non lo siamo mai stati e non possiamo esserlo, perché siamo nati negli anni '80, non nei '60. Ci hanno chiesto di diventarlo, ci hanno fatto sentire in colpa perché non lo siamo. Ci hanno fatto sentire falliti perché non siamo riusciti a raggiungere lo stesso obiettivo dei nostri genitori. Ma è sicuro che siamo noi quelli che non ce l'hanno fatta? O sono quegli adulti di prima ad avere chiuso tutte le loro possibilità, ad essersi incappucciati dentro una rete chiusa che segna l'inizio e la fine di una carriera, che comincia con un'assunzione a tempo indeterminato e si conclude con una festa di pensionamento. Lacrime all'inizio, per la soddisfazione, lacrime alla fine, per il terrore. Perché adesso che il posto che ho sempre occupato non è più mio, cosa farò? Ho aspettato tutta la vita per potermi finalmente godere la vecchiaia, ma ora sono troppo stanco per farlo. O almeno ci provo, il pensionato prova ad andare in gite organizzate, escursioni con pausa pranzo in chalet vista valle, raduni di appassionati a quel certo hobby per il quale non ha mai avuto abbastanza tempo, ma la sua ottica è proiettata in una prospettiva di obiettivi. Qual è il prossimo da raggiungere? Se ci pensa un po' di più viene colto dall'angoscia, perché lo sa nel suo profondo, l'ha sempre saputo. Il prossimo obiettivo è in una cassa di legno o in un vaso pieno di cenere, a seconda della modalità prediletta.

Resta l'inquietudine, l'incertezza, il dubbio. E adesso che cosa faccio? Servo ancora a qualcosa? I pensionati per un certo lasso di tempo sono anche felici, perché finalmente hanno il tempo di essere se stessi, non devono più essere sistemati, badare ai figli, raggiungere lo schema e il calendario dei punti. Adesso possono godersi quello che hanno ottenuto, ma per quanto tempo durerà prima che ricominceranno a sentirsi in ritardo, in affanno? Hanno dovuto lavorare tutta la vita, gli anni più forti e più floridi, davanti a uno schermo, in un ufficio dalle pareti bianche, ricevendo ogni tanto qualche gratificazione come un bonus da spendere per una nuova borsa firmata per la moglie per compensare tutto il tempo non trascorso insieme. Ma ne è valsa la pena? Ne è davvero valsa la pena?

Noi trentenni non abbiamo capito che abbiamo nelle mani il bene più grande. Essere precari non significa dolersi perché non si può richiedere un mutuo per la casa dei sogni. La casa dei sogni è una e resterà sempre ferma, nello stesso posto. Dalle sue finestre si vedrà sempre la stessa strada. Essere precari significa poter cambiare quella casa, cambiare letto, guardare l'alba da innumerevoli finestre diverse. Ma qual è quell'animale libero che sceglie volontariamente di ritagliarsi un pezzettino di mondo e guardare sempre tutto dallo stesso buco della serratura? Essere precari non significa solo non aver raggiunto quell'obiettivo, ma vuol dire avere a disposizione uno, due tre mesi l'anno durante i quali se non si rinnova il contratto si può andare in giro per il mondo. Non servono soldi, servono le gambe e saper camminare e saper fare amicizia, possibilità che appartengono a noi tutti. Durante quei mesi siamo liberi di non obbedire a nessuna legge del mercato, a nessun capo che ci obbliga a completare un lavoro noioso mentre fuori c'è il sole, a nessun call center che pretende che contattiamo centinaia di persone che ci chiuderanno il telefono in faccia perché quello che abbiamo da proporre non interessa a nessuno. Per due o tre mesi possiamo prendere uno zaino sulle spalle ed esplorare la regione nella quale viviamo. Possiamo rinchiuderci dentro una stanza e spararci tutte le serie che ci piacciono da morire, aprire un blog, commentare gli episodi e scoprire che in quel modo possiamo guadagnare facendo qualcosa che ci piace.

Guardiamo le cose da una prospettiva diversa. Non siamo chi non ce l'ha fatta, siamo chi può tutto. Non siamo chi non ha raggiunto ideali, siamo chi gli ideali è in grado di inventarseli. Possiamo essere meno razzisti, meno integralisti, meno compiaciuti di chi è venuto prima di noi. Siamo consapevoli di non essere perfetti e ci sta bene così.

Possiamo cambiare, possiamo fare quello che vogliamo. Possiamo essere plastici, mobili, liberi. Nel nostro precariato siamo liberi. Nel nostro precariato la nostra generazione è di nuovo umana.