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JEAN LOUISE FINCH detta SCOUT, ossia IL BUIO OLTRE LA SIEPE e VA', METTI UNA SENTINELLA raccontati da me
Ha sei anni, vive a Maycomb, in Alabama e ha una grande certezza: suo padre è l’uomo più giusto del mondo. E’ cresciuta con lo slogan “Uguali diritti per tutti; speciali privilegi per nessuno” e crede fermamente che sulla base di questo motto si possa costruire una solidissima impalcatura etica. Del resto è quello che suo padre continua a dimostrarle ogni giorno, con l’esempio e con discorsi concisi, chiari ed efficaci.
Scout sa che non tutte le persone possono permettersi di affrontare le stesse spese o pagare con la stessa moneta. Scopre che i servizi di un avvocato come suo padre possono essere ricompensati anche con sacchi di nocciole, cavoli e patate. Impara che alcune persone comunicano in modo diverso, cercando l’attenzione degli altri con piccoli oggetti lasciati ad arte nel vano cavo di un albero morente, inezie come chewing-gum o monetine da un penny e che prendere e conservare quegli oggetti equivale a stabilire un contatto umano.
Scout ama leggere. Ha imparato presto, grazie a Calpurnia, la domestica di colore, e l’ha sempre fatto con naturalezza e semplicità. Però la sua capacità precoce è incompatibile con i ritmi dei programmi scolastici e la maestra, quando la scopre, le proibisce di continuare a leggere per conto proprio e le raccomanda di attenersi alle sue indicazioni.
Fino al giorno in cui mi minacciarono di non lasciarmi più leggere, non seppi di amare la lettura: si ama, forse, il proprio respiro?
La frustrazione di Scout è talmente alta che non vorrebbe più tornare a scuola. Preferirebbe comportarsi come gli Ewell che si presentano in classe solo il primo giorno e poi spariscono per il resto dell’anno. Potrebbe insegnarle il padre Atticus quello che c’è da sapere, come il nonno ha fatto con lui e lo zio Jack. Ma Atticus non può farlo, non ne ha il tempo. E poi la scuola è necessaria, bisogna andare per legge. La legge è importante, Scout. Però si può fare un compromesso: se tu sei capace di capire che la scuola è una cosa imprescindibile, la sera continueremo a leggere insieme. E miss Caroline? Miss Caroline non deve mica saperlo per forza.
Scout è quel che si può definire un maschiaccio: indossa calzoni, non porta quasi mai le scarpe, se ne va in giro con il fratello Jem e l’amico Dill a stuzzicare gli inquietanti vicini di casa. Alle riunioni fra donne, coordinate dalla zia Alexandra, non riesce a seguire nessun discorso e si perde nelle sue fantasie lasciandosi cullare dall’ipnosi delle frivolezze. Impreca addirittura e ripete parole poco educate solo per il gusto di farsi rimproverare. Sfida il mondo dall’inappuntabilità dei suoi sei anni che le conferiscono l’arroganza di pensare che il mondo sia affar suo e possa gestirlo a piacimento.
La pensa ancora così, Jean Louise, a ventisei anni. Ormai vive a New York e torna a Maycomb solo di tanto in tanto per trovare il padre settantaduenne, acciaccato dall’artrite, e l’eterno fidanzato, Henry Clinton, che tiene appeso a un filo da più di un decennio. La donna Scout è ancora più radicale, la presunzione dell’infanzia si è mutata in cinismo e insolenza, è insofferente a tutto, a New York in cui non ritrova le sue radici e a Maycomb da cui non vede l’ora di scappare ogni volta che ci mette piede.
Eppure, fra le due, preferisce star lontana il più a lungo possibile perché a Maycomb le manca l’aria.
A New York tu sei te stessa. Puoi aprire le braccia e stringerti al petto tutta Manhattan in perfetta solitudine, o puoi andare all’inferno, se credi.
Il fratello Jem non c’è più, se l’è portato via, giovanissimo, una disfunzione cardiaca congenita. Era molto bello Jem. Muore giovane chi è caro agli dei. Così Scout torna un po’ per dovere filiale e un po’ perché quel cordone non l’ha mai veramente reciso.
Diventare grandi è un processo che non ha nulla a che vedere con l’età anagrafica. E’ una cosa che dipende più che altro dall’esperienza. Ci sono persone che riescono a vivere un’intera esistenza in una condizione di infanzia perpetua poiché non si imbattono mai in contraccolpi della vita che le obbligano a rompere le proprie salde sicurezze mentali. Ad altre persone, come Scout, l’età adulta arriva di botto, per un trauma concettuale, che rivoluziona l’orbita intorno alla quale ruotavano le sue certezze riguardo l’analisi del mondo.
Durante un soggiorno a Maycomb assiste a una riunione del Consiglio dei Cittadini, un meeting di uomini rigorosamente razzisti e separatisti, che non possono permettere che i cambiamenti politici in corso aprano le porte delle cariche pubbliche a questa crescente maggioranza nera strappando via il posto ai dignitosi bianchi cristiani. Tra quelle persone è seduto anche suo padre.
Non era sola; ciò che la sosteneva, la più potente forza morale della sua vita, era l’amore di suo padre. Non l’aveva mai messo in dubbio, non ci aveva mai pensato, non si era mai nemmeno resa conto che prima di prendere ogni decisione importante il suo inconscio veniva automaticamente attraversato dalla domanda: “Atticus che farebbe?”. Non si era mai resa conto che chi la incitava a puntare i piedi e tenere duro ogni volta che lo faceva era suo padre; che tutto ciò che di buono e rispettabile c’era nel suo carattere ce l’aveva messo suo padre; ignorava di adorarlo.
Possibile che quel pilastro che le aveva insegnato “Uguali diritti per tutti; speciali privilegi per nessuno” avesse mentito? Che cosa ci faceva insieme a quei viscidi, insensibili, ipocriti razzisti? Scout si sente cieca, cieca come una talpa. Il giorno prima, in chiesa, il reverendo ha letto un passo in cui si parlava di una sentinella mandata dal Signore per sorvegliare. Anche Scout ha bisogno di una sentinella adesso, una che la guidi e le spieghi cosa vede ora per ora. Una sentinella che le dica: questo è ciò che un uomo dice, ma questo è ciò che pensa, qui c’è questa giustizia e là c’è quella giustizia e le faccia comprendere la differenza.
Scout, cha ha sempre amato leggere, non riesce più a farlo perché non sa decodificare le lettere. Ma come, hanno sempre avuto un suono, una forma e ora non riesce a riconoscerle più? Si sente un’esule, un’alfabeta del reale.
Alla riunione c’è pure Henry, che fino a qualche ora prima stava meditando di poter sposare. Ma come potrebbe mai stare con un ipocrita come lui? Lei ha bisogno di gente onesta, che si batta per un principio, che dica sempre quello che pensa e lo sostenga con le proprie azioni. E’ delusa, affranta, arrabbiata. Vive in un mondo ideale, di tenera infantile giustizia. Ma Henry è già diventato adulto e sa che non si può abitare a lungo in un mondo fittizio.
Questa è la mia vita, questa città, non lo capisci? Maledizione, io sono uno dei diseredati di Maycomb, ma appartengo a questa contea. Sarò anche un codardo, sarò un ometto e la mia pelle non vale un gran che, ma questa è la mia casa. Cosa vuoi che faccia, che vada a gridare a tutti che sono degli smidollati? Io qui devo viverci, Jean Louise. Non lo capisci?
No, non lo capisce. E va bene così, tanto per Henry non era nemmeno sicura di aver mai provato amore, forse semmai una forma di affettuosa abitudine o meglio ancora lo strascico di un possibile legame con il fratello, di cui era molto amico. Ma con Atticus la faccenda è tutta diversa. E affrontare la nuova faccia di quel padre compassionevole, confortevole e sicuro è l’impresa più ardua in cui si sia mai imbattuta.
Ci sono certe situazioni della vita dalle quali non si può fuggire, si è messi con le spalle al muro e l’unico modo per uscirsene è affrontarle.
Così Scout prende la situazione di petto, accusa Atticus di averle mentito, di averla fatta crescere nell’illusione di un mondo equo e imparziale, nascondendole un volto mendace che proprio non riesce a perdonare. Lo accusa soprattutto di averle permesso di maturare un pensiero critico che la rende fragile appunto in quanto sensibile, più sensibile di quanto vorrebbe.
“Perché in nome di Dio non ti sei riammogliato? Perché non hai sposato una bella e cretina gentildonna del Sud che mi avrebbe tirato su come si deve? Che mi avrebbe trasformato in una specie di languida fanciulla melliflua e sorridente che batte le ciglia, incrocia le mani e vive solo per il suo ma-ri-ti-no? Almeno sarei stata felice. Sarei stata al cento per cento un tipico prodotto di Maycomb; avrei vissuto la mia piccola vita e ti avrei dato dei nipoti per i quali stravedere; mi sarei ingrossata come la zitta, fatta vento sulla veranda, e sarei morta beatamente. Perché non mi hai insegnato la differenza fra giustizia e giustizia, diritto e diritto? Perché?”
Scout non si dà pace per l’offesa subita, si sente una vittima ingannata dalla pantomima del padre integerrimo che l’ha fatta diventare grande all’ombra di una fallace immagine di integrità.
Atticus assorbe tutte le accuse, flemmatico, imperturbabile, lascia che la figlia gli scaraventi addosso tutte le insolenze e gli insulti possibili, che inveisca, che minacci di non volerlo vedere mai più.
E’ esausta Jean Louise. Prepara i bagagli, vuole solo tornare a New York. Un vuoto le invade lo stomaco, è il senso di prosciugamento che segue una grande liberazione.
Lo zio, il dottor Finch, la incrocia sul vialetto, mentre si accinge a caricare i bagagli in macchina e sparire per sempre da Maycomb.
E’ un altro dialogo saggio uomo anziano/incazzata ragazza giovane, ma questa volta Jean Louise non ha niente da aggiungere, anzi percepisce una strana sensazione.
“Zio Jack, è ancora tutto lì. E’ successo. E’ stato. Ma…sai? In un modo o nell’altro sta diventando sopportabile. E’… sopportabile.”
Lo zio sa cosa è accaduto, comprende e spiega. Spiega a Jean Louise perché adesso è sopportabile: finalmente è padrona di se stessa. Ha avuto il coraggio di sostenere la propria idea, di difenderla, anche se questo significava distruggere l’icona della sua vita, quel padre adorato, mitizzato che non ha mai voluto vedere veramente per ciò che era, fino a oggi. Quel padre ha ingoiato tutti i colpi per consentirle di ridurlo allo stato di essere umano.
“L’isola di ogni uomo, Jean Louise, la sentinella di ognuno di noi, è la sua coscienza. Non esiste una cosa come la coscienza collettiva.”
Jean Louise comincia a realizzare e anche a rendersi conto di quanto sia stata irruente e avventata e prova vergogna. Quando incrocia di nuovo Atticus, poco dopo, vorrebbe infilzare il suo orgoglio e obbligarsi a chiedere scusa, ma non riesce a dire molto, se non che prova dispiacere. E la risposta la spiazza come non mai.
“Tu puoi essere dispiaciuta, ma io sono fiero di te.”
“Cosa?”
“Ho detto che sono fiero di te”
“Non ti capisco. Gli uomini, non li capisco e non li capirò mai.”
“Be’ io speravo di avere una figlia capace di difendere la propria posizione in tutte le cose che trova giuste, questo è certo… e in primo luogo di tenermi testa.”
Jean Louise va via da Maycomb lasciandosi Scout alle spalle. La crisalide ha lasciato volar via la farfalla. Adesso può librarsi nel cielo libera, anche se la nostalgia per la vecchia, confortevole forma la accompagnerà ancora per un po’.
Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axelsson
Casa Editrice: Iperborea
Anno di pubblicazione: 2014 (Italia 2016)
Traduzione: Laura Cangemi
Lunghezza: 539 pagine (e postfazione di Björn Larsson)
Avresti dovuto parlare più spesso di te. Non lo dico per criticarti, ma perché è necessario che qualcuno te lo dica. Lo pensiamo tutti, il papà, la mamma, e anch'io. Avresti dovuto parlare di più. Per il tuo bene. E per quelli che verranno dopo di te.
Le generazioni di oggi sono state educate a tirar fuori tutto, ogni malessere, insicurezza, dubbio, slancio creativo tutto deve essere comunicato, messo in comune. Condiviso, potremmo dire, con un verbo che ci ha letteralmente invasi. Alle generazioni di ventenni sembra inopportuno e persino deplorevole il comportamento di chi sceglie di non mettere in vetrina la propria vita e preferisce tenere per sé i propri demoni - schivare - evitare, di doverne parlare.
Io non mi chiamo Miriam. Questa è la sentenza con cui Miriam Goldberg, il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno, esordisce rivelando alla famiglia una verità che ha tenuto sotto chiave per anni. E la sua dichiarazione è come il vaso di Pandora, travolge ogni sicurezza. La nipote Camilla, più di tutti, ha smania di sapere e pungola, interroga, infierisce, con quella leggerezza che hanno i giovani e che ferisce proprio perché mai sazia di sensazionalismi. Vuole conoscere le storie di Auschwitz e Ravensbrük, vuole ascoltare delle camere a gas, dei vagoni bestiame, degli scheletri ambulanti che si accapigliavano per il possesso di una mela marcia. Soprattutto vuole sapere perché la nonna ha taciuto per anni di aver preso in prestito l'identità di una deportata ebrea e di averne vissuto la vita. Semplicemente, Miriam era nata Malika e se voleva sopravvivere non poteva restare una rom.
Ai giovani sembrano storie nere da romanzo dell'orrore e ci vuole parecchio perché la nipote Camilla cominci a capire che non si tratta di leggende inventate per far spaventare i bambini, ma che è tutto vero e che è orribile. Scopre che anche in Svezia, il Paese più tollerante del mondo, le rappresaglie contro i tattare sono state durissime e si sono protratte ben oltre la fine della guerra. Fa fatica a crederci, sembra tutto assurdo.
[...] dentro di lei si scatena il panico. Di colpose si spalma un baratro facendole intuire, sentire, capire e comprendere che tutto questo è successo per davvero, sul serio, nella realtà. Il nazismo. Auschwitz. Ravensbrück. Sua nonna ha addirittura conosciuto il dottor Mengele, quello a cui Camilla ha sempre pensato come una specie di personaggio delle fiabe, un morto vivente di un racconto dell'orrore, un mostro in uniforme nera che girava per Auschwitz mettendo a morte altri al posto suo. Invece è esistito. Sua nonna l'ha visto di persona, ha sentito la sua voce.
Miriam-Malika cammina, ricorda, cerca di venire a patti con l'eterna condanna che vuole che i rom siano considerati tutti ladri. Forse hanno ragione, si dice, lei ha rubato a una donna un'intera vita. Ha tradito le sue origini e la sua gente, l'ha fatto per sopravvivere. È forse poco umano questo?
Il tempo della storia è concentrato in un unico giorno, con una nonna e una nipote che passeggiano intorno al lago, ma il tempo del ricordo è lungo, lento, doloroso. Dura anni di violenze e sofferenza, trascorsi in una fabbrica tessile a far finta di non esistere cucendo maniche per le divise che saranno indossate dai carnefici. Continua ancora, in un presente dove Miriam è diventata madre e nonna, ma che dietro le apparenze rivela un profondo disagio esistenziale. Una famiglia apparentemente perfetta, ma che per anni è vissuta nello scontro verbale, nell'imbeccata velenosa, nelle accuse rinfacciate di manchevolezze e disattenzioni. Miriam è passata attraverso l'inferno dei campi e questo nuovo inferno domestico amatoriale costruito ad arte sembra solo confermare l'incapacità degli uomini di saper creare armonia.
Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axelsson è un romanzo sulla memoria e sull'identità, ma non nel modo consueto in cui i libri sul tema hanno affrontato questi argomenti. È una storia in cui non si cerca di ricordare, ma di dimenticare e ogni fantasma che emerge - Anuscha, Else, il fratellino Didi vittima del dottor Mengele – reclama il proprio sepolcro. Il dolore di un essere umano si riappropria della dimensione privata, lasciando in secondo piano il dramma comunitario. La domanda esistenziale – sono la persona che è stata generata o quella che ho scelto di diventare – è il vero fulcro dell'opera e così, in un gioco di rimandi, trasla da un tragico personale a un interrogativo universale. Siamo ciò che abbiamo deciso di essere ed è in questa possibilità di scelta che risiede la libertà. Anche quella di non voler alimentare ricordi che non desideriamo.
L'autrice, Majgull Axelsson, è una rinomata giornalista, drammaturga e scrittrice svedese. Per la stesura del romanzo, durata due anni e mezzo, ha visitato personalmente i luoghi delle deportazioni e consultato numerosi testi storici. Ha avuto il merito di sdoganare un tabù congegnando un'opera narrativa credibile e dignitosa intorno a uno degli eventi più drammatici della storia dell'umanità.
La casa editrice Iperborea ha pubblicato nel 2019 anche La tua vita e la mia.